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Il Re Porcaro

di Guido Gozzano


I

  Un Re aveva tre figliuole belle come il sole e ch'egli amava più degli occhi suoi.
  Avvenne che il Re, rimasto vedovo, riprese moglie e cominciò per le tre fanciulle una ben triste esistenza. La matrigna era gelosa dell'affetto immenso che il Re portava alle figlie e le odiava in segreto. Con mille arti aveva cercato di farle cadere in disgrazia del padre, ma visto che le calunnie non servivano che a farle amare di più, deliberò di consigliarsi con una fattucchiera.
  - Si può farle morire - rispose costei.
  - Impossibile: il Re ammazzerebbe anche me.
  - Si può deturparle per sempre.
  - Impossibile: il Re m'ammazzerebbe
  - Si può affatturarle in qualche modo...
  - Vorrei una fatatura che le facesse odiare dal padre, per sempre.
  La strega meditò a lungo, poi disse:
  - L'avrete. Ma mi occorre che mi portiate un capello di ciascuna strappato con le vostre mani e tre setole porcine, strappate con le vostre mani...
  La matrigna ritornò a palazzo e la mattina seguente entrò sorridendo nelle stanze delle tre principesse, mentre le cameriste ne pettinavano le chiome fluenti.
  - Figliuole mie - disse con voce affettuosa - voglio insegnarvi un'acconciatura di mia invenzione...
  E preso il pettine dalle mani delle donne, pettinò Doralice.
  - Ah! mamma, che mi strappate i capelli!...
  Pettinò Lionella.
  - Ah! mamma, che mi strappate i capelli!...
  Pettinò Chiaretta.
  - Ah! mamma, che mi strappate i capelli!...
  Salutò le figliastre e uscì con i tre capelli attorti nel dito indice... Attraversò i giardini, i cortili, giunse alle fattorie, entrò nel porcile e con le sue dita inanellate strappò tre setole da tre scrofe grufolanti.
  Poi ritornò dalla strega.
  La strega pose in un lambicco i tre capelli dorati e le tre setole nere, vi unì il succo di certe erbe misteriose e ne distillò poche gocce verdastre che raccolse in una boccetta.
  - Eccovi, Maestà. Le verserete nel bicchiere del Re, all'ora del pranzo. È la fattura dello scambio; l'effetto sarà immediato.
  La Regina si tolse dalla corona la pietra più bella, la regalò alla strega e se ne andò.

II

  Alla mensa regale sedevano il Re, la Regina, le tre principesse, cinquecento dame e cinquecento cavalieri.
  La Regina versò furtivamente nel calice del Re il filtro fatato e attese, ansiosa di vederne l'effetto. Aveva appena bevuto che il Re stralunò gli occhi, come preso da sdegno e da meraviglia, e si alzò accennando verso le figlie:
  - Che beffa è questa? Chi ha messo tre scrofe al posto delle mie figliuole? Che beffa è questa? Via di qui! Via le bestie immonde!
  E alzatosi furibondo cominciò a malmenare, a percuotere le figlie, a spingerle, a inseguirle attraverso le sale, i giardini, i cortili, fino al porcile dove le rinchiuse.
  Dal porcile trasse, invece, le tre scrofe corpulente e prese ad abbracciarle, chiamandole coi nomi delle figlie; poi le condusse a palazzo, le fece salire a mensa, sui seggi delle tre principesse:
  - Chiaretta, Doralice, Lionella, povere figlie mie, chi vi fece l'onta di chiudervi là dentro?
  E le baciava amorosamente.
  Tutta la Corte, seduta a mensa, rideva.
  Il Re aggrottò le ciglia.
  - Perché si ride?
  Allora un cavaliere si alzò:
  - Maestà, perdonate, ma quelle sono tre scrofe!
  Il Re, furibondo, lo fece immediatamente tradurre in prigione, nei sotterranei delle torri.
  E riprese a baciare le tre bestie che grugnivano.
  La Corte rideva.
  - Perché si ride?
  Un secondo cavaliere si alzò:
  - Maestà, perdonate; ma, in nome di Dio, quelle non sono le tre reginette, sono tre scrofe.
  Il Re lo fece decapitare all'istante, per lesa maestà. E la Corte non rise più.
  Le tre bestie furono vestite con abiti regali, adorne di gioielli, servite da cento cameriste. Il re le voleva vicine sempre, le accompagnava a passeggio, a mensa, a Corte, alle danze, ai ricevimenti. E ovunque le tre scrofe passavano, dame e cavalieri facevano ala, piegandosi fin in terra, inchinandole e ossequiandole come principesse del sangue.
  Ma tutti soffocavano le risa, mormorando:
  - Passa il Re ammattito, passa il Re Porcaro!...

III

  Chiaretta, Lionella, Doralice passavano i loro giorni nel porcile, piangendo e invocando pietà. Il Re, che amava occuparsi in persona delle sue fattorie, passava talvolta con la Regina accanto al porcile; e le sue figlie si protendevano piangendo verso il padre che non le riconosceva.
  - Padre! Padre caro, non ci ravvisate? siamo le vostre figliuole! Che colpa è la nostra? Che vendetta è la vostra? Liberateci, per pietà!...
  Il Re le guardava distratto attraverso le sbarre del porcile e diceva alla Regina:
  - È strano come queste tre bestie grugniscono pietosamente e protendono le zampe verso di me...
  La Regina, inquieta, voleva liberarsi delle figliastre definitivamente.
  - Osservate, Maestà, come son fresche e rosee: io consiglierei il gastaldo di farne salame...
  - Dite bene - rispose il Re - oggi stesso darò ordine di farle sgozzare...
  Le tre reginette caddero prive di sensi.

IV

  Rinvennero al luccichìo di coltellacci enormi. Furono legate mani e piedi ad un bastone; ogni bastone, sorretto ai capi da due bifolchi, prese la via del macello.
  Cammin facendo le tre sorelle supplicavano i loro aguzzini
  - Comando del Re!
  Esse piangevano, disperate.
  - Comando del re! Se il Re si sapesse disobbedito farebbe sgozzare anche noi.
  Ma quelle tanto piansero e supplicarono che i sei carnefici s'impietosirono.
  - Bisogna promettere di non ritornare alla Reggia mai più.
  Le tre sorelle promisero.
  Allora i bifolchi le portarono fino ai confini del regno, le slegarono e le abbandonarono al loro destino.

V

  Rimaste sole e povere, in paese straniero, le tre principesse dovettero lavorare per campare la vita. Per loro fortuna avevano imparato fin da bimbe ogni lavoro donnesco; e sapevano cucire e ricamare a perfezione.
  La bellezza misteriosa delle tre ricamatrici faceva correre strane voci nella città, ma esse vivevano quiete e laboriose nella piccola casa modesta. Rimpiangevano talvolta l'affetto del padre e il regno perduto.
  Lionella sparecchiava la mensa e diceva:
  - A quest'ora ci si abbigliava per il ballo...
  Doralice rigovernava i piatti e diceva:
  - A quest'ora le nostre donne ci davano il bagno nell'acqua di rose...
  Chiaretta scopava e diceva:
  - A quest'ora si andava a caccia dell'airone col girifalco...
  E sospiravano.
  Picchiava sovente alla porta un vecchio mendicante dalla barba bianca; e sempre le sorelle gli donavano una scodella di minestra.
  - Grazie, figliuole! Che mani da principesse!...
  - Siamo principesse.
  E una sera si sedettero col vecchio sulla panca della strada e gli confidarono la loro storia.
  - Povere figliuole! Non m'è nuovo questo incantesimo... Il Re, vostro padre, ha bevuto la fatatura dello scambio...
  E trasse fuori dalla bisaccia un libercolo di pergamena sgualcito e cominciò a sfogliarlo attentamente. L'aveva trovato anni addietro, nella caverna di un monte, presso lo scheletro d'un eremita.
  - Contro la fatatura dello scambio c'è un'acqua infallibile: l'acqua che balla, che suona, che canta; ma non si sa dove sia...
  Per molti giorni le sorelle meditarono le parole del vecchio. E una sera Lionella disse:
  - Sorelle mie, io sono la primogenita. Ho deciso di tentar la sorte per tutte. Partirò alla ricerca dell'acqua miracolosa.
  Abbracciò le sorelle piangenti e sul fare dell'alba se ne partì.
  Passarono i giorni, le settimane, i mesi; e Lionella non ritornava.
  Compiva l'anno, il mese, il giorno quando Doralice disse a Chiaretta:
  - Sorella mia, sono la secondogenita. È giusto ch'io mi metta alla ventura. Partirò domani.
  All'alba abbracciò la sorella e se ne partì.
  Chiaretta restò sola nella piccola casa deserta. Passò il tempo.
  Compiva l'anno, il mese, il giorno e Chiaretta decise di porsi alla ventura.
  Cammina, cammina, cammina...
  Attraversò fiumi e boschi, monti e pianure, mendicando un tozzo di pane ai casolari. Le massaie, sulla soglia, guardavano stupite quella bella mendica giovinetta.
  - Buone donn, sapreste darmi notizia dell'acqua che balla, che suona, che canta?
  Ma quelle si stringevano nelle spalle. Nessuna sapeva.
  E Chiaretta riprendeva sconfortata il cammino. Una sera si addormentò tra le foglie secche, sotto un castagno. All'alba si sentì tirare una ciocca, sulla tempia: si volse e vide una lucertola con due code impigliata nei suoi capelli d'oro.
  - Ho passata la notte nei tuoi capelli ed ora son prigioniera... Liberami e ti ricompenserò!
  Chiaretta liberò le zampine dall'intrico dei legami sottili.
  La lucertola le diede una delle sue due code.
  - Tienla preziosa. Ad ogni domanda ti risponderà.
  Chiaretta contemplò a lungo il moncherino che s'agitava nella sua palma distesa.
  - Coda, codina, sai dirmi dov'è l'acqua che suona, che balla, che canta?
  E la coda girò nella palma della mano, si tese verso un punto dell'orizzonte come l'ago di una bussola.
  Chiaretta prese quella direzione.
  Cammina, cammina, cammina, giunse in un paese lontano, fra dirupi spaventosi; e sentì la codina agitarsi nella sua tasca, quasi ad avvisarla. Domandò ad una vecchietta notizie dell'acqua portentosa.
  - Sì, la fonte è qui! Ma è in custodia di un negromante che abita lassù, in quel castello che vedete. Arrivano sovente dame e cavalieri, entrano nel giardino delle sette porte, ma nessuno ne esce più...
  Chiaretta entrò coraggiosa nel giardino fatato, stringendo in una mano l'ampolla vuota, nell'altra la codina miracolosa. Il giardino era un laberinto dalle mille strade tortuose dove fatto il primo passo si restava smarriti.
  Ma chiaretta seguiva ogni movimento della codina oscillante nella palma della sua mano. E gira e rigira, sul tramonto riuscì in una pianura dove in una conca immensa si raccoglieva l'acqua meravigliosa.
  Attorno alla fontana si vedevano, a perdita d'occhio, statue di marmo candidissimo.
  Chiaretta fece per riempire l'ampolla, ma sentì la codina agitarsi disperata nell'altra mano, e l'osservò. Il moncherino cominciò a piegarsi a N, poi a O, poi ancora a N, poi prese a parlare con lettere viventi:
  - Non toccare l'acqua fatata! Chi la tocca resta di marmo.
  Allora Chiaretta appese l'ampolla ad un filo, la calò e l'estrasse ricolma; poi la turò e la pose in tasca. Pensava al ritorno quando riconobbe in una statua la sorella Doralice; guardò quella dopo: era lionella. Prese ad abbracciare il freddo marmo, piangendo.
  - Coda, codina, risuscita le mie sorelle!
  Accostò il moncherino alle statue e quelle rivissero all'istante.
  Le tre principesse ripresero la via della patria.

VI

  Giunte al regno del padre, le sorelle si travestirono da pellegrine, per non essere riconosciute dalla matrigna che le credeva morte; e col volto coperto d'un velo fitto e il petto adorno di conchiglie e d'amuleti si presentarono al palazzo.
  Il Re le ricevette nella sala del trono. Accanto a lui sedeva la matrigna e le tre scrofe usurpatrici, vestite di stoffe preziose, adorne d'oro e di gemme.
  - Sire! Siamo pellegrine reduci di Terra Santa. Abbiamo portato dai paesi del Gran Turco un'acqua dilettosa che vogliamo offrire alla Maestà Vostra.
  E Chiaretta trasse fuori l'ampolla, la sturò, la depose ai piedi del trono.
  Subito ne balzò fuori l'acqua fatata, fece un inchino e cominciò a salire i gradini del trono danzando e cantando al suono di una musica lontana. La sua canzone narrava di tre principesse perseguitate dalla matrigna e d'un Re insanito per un filtro malvagio, narrava tutta l'istoria pietosa delle tre giovinette.
  La matrigna fece per ghermire e disperdere l'acqua delatrice ma la toccò appena che restò di marmo.
  Al Re fu come cadesse dagli occhi una benda; vide le tre bestie immonde sedute sui seggi delle figlie rinnegate, capì, e scese a braccia aperte stringendo le tre pellegrine che si erano scoperte il viso.
  La Corte acclamava il Re rinsavito e le principesse redivive.
  Queste, pietose, vollero ritornare in vita la Regina pietrificata, e cercarono la coda di lucertola, ma la coda non c'era più.
  E la matrigna di marmo, col volto furente e le mani protese, fu collocata su un piedistallo, nell'atrio del palazzo, e vi restò nei secolo come statua della malvagità.


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